Attack on Titan - The Final Season Recensione: la stagione 4 è una bomba

L'Attacco dei Giganti - The Final Season è la stagione della maturità e imprime all'anime una nuova fisionomia sia in termini visivi che narrativi.

Attack on Titan - The Final Season Recensione: la stagione 4 è una bomba
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Il tanto atteso finale di Attack on Titan è finalmente giunto, ne abbiamo dibattuto, ne abbiamo scritto (ecco cosa pensiamo dei Final Chapters di Attack on Titan) e dopo averne elaborato gli avvenimenti, è il momento di tirare le somme e di valutare quanto fatto da Studio MAPPA: la Final Season è la migliore stagione dell'anime sui giganti?

Il grande lavoro di Studio MAPPA

Partiamo con lo spezzare una lancia a favore dello spesso bistrattato Studio MAPPA, nell'occhio del ciclone per un andamento produttivo e distributivo di certo non vantaggioso e lontano da un ideale rilascio strategico degli episodi. Assodati i problemi relativi all'elevata mole di lavoro a cui gli animatori hanno dovuto far fronte, il rallentamento del processo distributivo ha, di fatto, permesso di mantenere alta la qualità tecnica e ha scongiurato la possibilità di trovarci di fronte ad un'opera visivamente disomogenea.

È evidente che ad evitare che questa lenta somministrazione si trasformasse in un vero e proprio suicidio produttivo abbia contribuito lo status raggiunto dall'opera di Hajime Isayama, fenomeno dal successo planetario e vero anime di riferimento del decennio appena trascorso. Si aggiunge, poi, una certa densità di accadimenti e di fatti rilevanti ai fini della trama che si presta perfettamente a costituire unità narrative circoscrivibili nello spazio di un macro-episodio isolato (com'è stato per lo special da 1 ora che ha preceduto il finale e per la conclusione stessa). Pertanto, micro-parti di una narrazione prolissa e spezzettata riescono a sostenersi grazie all'alta concentrazione di momenti clou e risvolti notevoli, grazie alla relativa autonomia che ne deriva.

Passando al mero lato tecnico, il lavoro svolto dallo Studio MAPPA è spesso uscito malconcio dal confronto con quanto realizzato dallo studio d'animazione che lo ha preceduto, criticato dai nostalgici dello stile di Wit Studio, a volte screditato per l'utilizzo di una CGI che nelle stagioni precedenti era molto ristretto. Chi gli ha passato la staffetta ha senza alcun dubbio svolto un lavoro egregio nell'adattare le prime tre stagioni, ma siamo convinti che in concomitanza con il plot twist della terza stagione e il conseguente time-skip, l'approccio di Studio MAPPA sia stato il migliore possibile e la nuova fisionomia conferita all'anime, la sembianza tutta seriosa, cupa, dark, ha giovato ed è il frutto del cambio di direzione. Sia chiaro, la quota dark non si risparmiava neanche nelle iterazioni precedenti, ma con il cambio di ambientazione e la crescita dei protagonisti i disegni di MAPPA risultano più calzanti proprio perché improntati verso l'abbandono di ogni elemento cartoonesco.

Lo stile del nuovo studio di animazione, più realistico, meno netto e più slanciato nel character-design, più utile ad una regia che strizza l'occhio all'action occidentale e che compie un tangibile salto qualitativo, meglio si adatta a rendere l'idea di una maturità raggiunta. È la maturità dei personaggi e della storia stessa, definitivamente passata ad altri lidi narrativi, ormai incentrata su una guerra cruda, tangibile, controversa, umana.

E per quanto l'implementazione della CGI possa far storcere il naso ai puristi dell'animazione a due dimensioni, non si può, innanzitutto, negare un ottimo lavoro di cel-shading che permette un'integrazione priva di forzature visive e garantisce un'ottima continuità grafica (l'essere destinata quasi esclusivamente alla rappresentazione dei giganti, poi, rende concreta l'alterità della loro apparenza); è, inoltre, necessario prendere in considerazione la problematicità delle parti messe in scena. Quella preso in carico da MAPPA è di gran lunga la porzione più ostica per proporzioni, per figure in campo, per teatralità degli accadimenti. Nelle poche occasioni in cui Wit ha dovuto ricorrere all'animazione in 3D (ad esempio per dar vita al Gigante Colossale della battaglia di Shiganshina), il risultato ha evidenziato un grado di plasticità e di discontinuità con i fondali che MAPPA ha saputo eludere anche in situazioni più complesse. Non c'è nulla che dia l'idea di un'aggiunta posticcia nelle animazioni della Final Season, nonostante il gigantismo della messa in scena, nonostante le battaglie di proporzioni titaniche, malgrado tutto si moltiplichi e sia un folle proliferare di giganti e di nuovi poteri, con esito estremo il Boato della Terra.

L'Attacco dei Giganti annienta ogni certezza

È proprio nelle proporzioni che, con la Final Season, L'Attacco dei Giganti fa un salto in avanti e cambia in maniera irreversibile. Con la rivelazione su ciò che si trova al di là delle mura, oltre il mare, con la verità su Paradis e Marley, quanto raccontato in precedenza subisce un totale mutamento di prospettiva.

L'anime si reinventa, diventa altro da sé, costringe lo spettatore a rivalutare quanto visto nelle prime tre stagioni. Con la Final Season, Attack on Titan si spinge oltre lo shonen, si evolve al di là dei topoi del suo target di riferimento, si insinua definitivamente in uno spazio liminale reincorporando tutto ciò che aveva mostrato, inglobandolo dentro una narrazione dal respiro più ampio, scaraventando lo spettatore fuori dalla caverna di Platone in cui era segregato insieme ai protagonisti. E così ci presenta quella realtà che si era detta in qualche modo più cupa, più realistica e dura da assimilare, da digerire, sia perché frutto di una narrazione che va rivista e ripensata, sia perché immersa irrimediabilmente nelle atrocità della guerra e negli orrori generati dall'odio. È un ritratto maturo e problematico del conflitto bellico, a decadere è la concezione manichea della prima parte: il male sfuma, diventa ambiguo, si confonde con il bene e si fa difficile schierarsi in un mondo molto più stratificato, meno polarizzato, lontano da una rappresentazione binaria delle forze in gioco. È per questo che le carte si rimescolano, le alleanze si ingarbugliano, i nemici diventano risorse (Annie e Reiner sono solo gli esempi più eclatanti).

La certezza di dover sempre prendere le parti del protagonista viene messa in crisi dall'incredibile evoluzione di Eren. La sua metamorfosi è, a memoria, quanto di più estremo si sia mai verificato in un prodotto di natura commerciale nel panorama dell'animazione giapponese. Lo è perché definitiva (anche se Eren viene in qualche modo riabilitato nel finale), non comparabile alle temporanee revisioni del personaggio tipiche del genere fantasy, e perché riferita al protagonista di uno storytelling che fino alla terza stagione aveva posseduto una forza centrifuga non indifferente e aveva spinto forte sulla centralità del proprio eroe.

Con l'evoluzione di Eren e il progressivo disallineamento dello spettatore (che si scolla inevitabilmente in seguito alle azioni immorali compiute dal fu paladino della giustizia) cambia, dunque, anche il focus della narrazione che sprigiona tutto il suo potenziale in termini di coralità. Ad un Eren ormai fuori dalla nostra portata, spettrale e più vicino ad un impassibile e men che meno misericordioso dio della morte piuttosto che ad una vittima con cui empatizzare, sostituiamo Armin e Mikasa, a cui consegniamo rispettivamente la palma di protagonista morale e di eroe risolutivo. Accanto a loro una costellazione di nuovi personaggi che nel giro di una stagione si fanno manifesto della capacità di Isayama di assicurare una caratterizzazione e una crescita profonde alle sue creature, su tutte Pieck, Gabi e Falco.

Ci sono momenti di assoluta emotività, ricchi di pathos e avvolti di malinconia, si pensi alla sconvolgente dipartita di Sasha e alla struggente immolazione di Hange, al martirio ideologico di Floch e alla plateale (e sanguinaria) dichiarazione di guerra di Eren a Marley. A questi si aggiungono plot twist disseminati come mine in un campo di cui finiamo per essere vittime quando la verità sulle azioni di Grisha Jaeger ci esplode in faccia, quando la scoperta del potere di Eren (la coesistenza di passato, presente e futuro nella sua memoria) ci travolge. Tutto confluisce in un unico evento culmine: è l'attivazione del Boato della Terra, plot point dall'entità paragonabile all'arrivo del Colossale nel primo episodio della serie. L'inizio del Rumbling è il momento più critico dell'anime, il punto di non ritorno e l'inizio dell'ascesa verso il climax finale. L'avanzata dei titani guidati dal Gigante Fondatore è per l'umanità tutta quello che per gli abitanti di Paradis aveva simboleggiato lo sfondamento del Wall Maria: la fine.

Qui L'Attacco dei Giganti alza ancora l'asticella, giunge ad un massacro senza vie di fuga apparenti, allestisce una gigantomachia senza divinità a proteggere gli uomini. È uno sviluppo che, per esiti e modalità d'attuazione, non si avvicina a nulla di quanto visto fino ad ora in uno shonen classico e che veicola quel messaggio di non-speranza che bisbigliava acquattato nelle prime stagioni dietro l'eroicità e l'epicità positiva della Resistenza, del bene che si opponeva al male e che confidava nell'opportunità di avere la meglio.

Un monito che adesso esplode nella straziante dichiarazione di un conflitto inevitabile e destinato a ripetersi, di un libero arbitrio che, in definitiva, perisce sotto i colpi della ciclicità degli eventi, di un predeterminismo che imbriglia persino chi pensava di essere burattinaio (Eren) e non può che riscoprirsi burattino nelle mani della predestinazione.

L'Attacco dei Giganti - Stagione 4 La Final Season de L’Attacco dei Giganti è la stagione della maturità. Lo è dal punto di vista visivo, con un lavoro certosino di Studio MAPPA, che coglie proprio quella crescita che la storia suggerisce e dà vita ad un Attack on Titan più dark sia nel suo aspetto cromatico, sia nello stile realistico con cui raffigura personaggi e ambienti. Lo è, poi, dal punto di vista dei temi e degli eventi che lo scandiscono. Il mondo plasmato da Hajime Isayama si espande incuneandosi nelle fessure di una narrazione che attendeva la stagione propizia, fiorisce sfruttando i semi che aveva piantato, appassisce, poi, quando si addossa la responsabilità di mandare un messaggio di morte, di attestare un ciclo imperituro e vizioso, inscalfibile e inarrestabile. Non c’è amore che tenga, non esiste pace che non sia precaria, e chi manovra si riscopre manipolato, chi cerca l’emancipazione esistenziale diviene schiavo della libertà.

9.5