Durante la Geeked Week, l'evento streaming organizzato da Netflix, è stato presentato Bright: Samurai Soul, spin-off del film Bright diretto da David Ayer e interpretato da Will Smith (ecco la nostra recensione di Bright): una storia sulla carta convincente, con un samurai, un elfo, e un orco. Quando, però, nelle scorse settimane è stato mostrato il trailer, abbiamo iniziato ad avere i primi dubbi, a causa del marcato utilizzo di una CGI poco piacevole. Tuttavia, non abbiamo voluto dare molto peso al lato visivo, convinti che la trama avrebbe potuto comunque sorprenderci. Abbiamo potuto vedere in anteprima Bright: Samurai Soul, ma ci ha delusi su ogni fronte: scopriamo cosa non ci ha convinti.
Viaggio verso Nord
Similmente alla sua controparte live action, anche Bright: Samurai Soul è ambientato in un mondo immaginario dove esseri umani e creature fantastiche convivono, ma la storia si svolge nel Giappone del cambiamento. I primi minuti del film sono ambientati alla fine del periodo Keio, con precisione nel 1868, un'epoca fondamentale per la nazione, perché divisa da una guerra civile. Lo scontro giunge a termine quando dal campo di battaglia si innalza una colonna di luce: i soldati, incantati e spaventati, lasciano cadere le armi. Gli eventi principali, però, hanno luogo alcuni anni dopo, nel pieno del periodo Meiji, in cui il Giappone si affacciava verso il rinnovamento. Uno dei protagonisti è Izou, un ronin che ha partecipato alla guerra, ma che ora lavora come guardia in un bordello a Kyoto. Al momento, il Nostro deve prendersi cura di Sonya, una giovane elfa arrivata da lontano, nonché nuovo acquisto della casa chiusa. In poco tempo, la ragazza diventa la cameriera privata dell'Alta Cortigiana del bordello, la donna più bella della città, nota come Chihaya, colei che fa dimenticare: i clienti dimenticano di tornare a casa dopo essere stati con lei, ma anche lei stessa ha perso la memoria di tutto subito dopo la guerra; l'unica cosa che le è rimasta è un kanzashi, un tipico fermaglio giapponese. Scopriamo in seguito che Chihaya è un'elfa e che esiste una terra lontana, a Nord, dove gli elfi vivono liberi, senza essere odiati o temuti.
Una sera, fa irruzione un gruppo di banditi, formato da umani e creature fantastiche, tra cui anche il secondo protagonista: l'orco blu Raiden, che vuole portare a termine l'ultimo incarico per ottenere la libertà. L'obiettivo dei criminali è rapire Sonya, ma Izou li affronta senza troppe difficoltà ed ha un faccia a faccia proprio con Raiden.

Nel frattempo, i banditi irrompono nella stanza dell'Alta Cortigiana: questa, per difendere se stessa e Sonya, usa il fermaglio, che in realtà è una bacchetta magica, con la quale ferisce gravemente il capo dei fuorilegge. Poco prima di morire a causa di un colpo fatale, la donna crea una colonna di luce. Il palazzo è ormai avvolto dalle fiamme e Izou e Raiden fuggono, portando con sé Sonya e la bacchetta. L'obiettivo della giovane elfa è di raggiungere il Nord: dopo aver messo da parte le rivalità, Izou e Raiden sono pronti a scortarla e a proteggerla.
Quello di Bright: Samurai Soul è un viaggio impervio, con nemici intenti ad impossessarsi della bacchetta e dell'elfa, in quanto è l'unica in grado di brandirla, essendo una Bright. Eppure, nonostante le premesse di un classico racconto di un viaggio di formazione e di introspezione, Bright: Samurai Soul non riesce a soddisfare tutte le aspettative, a causa di una storia dall'impostazione semplice, priva di pathos e con buchi narrativi, di un'analisi poco curata del contesto, e di personaggi poco sviluppati.
L'onore del samurai
Dopo aver portato a termine la visione di Bright: Samurai Soul, abbiamo capito che sia a livello di trama che di impianto artistico è un'opera priva di mordente. Il lungometraggio ha una struttura narrativa alquanto lineare e statica, senza particolari guizzi che possano incuriosire. L'espediente del viaggio avrebbe potuto essere un modo per approfondire meglio il contesto ed i tre protagonisti, se non che, la traversata di Izou, Raiden, e Sonya si interrompe subito: ben presto una missione di scorta diventa di salvataggio. A seguito di ciò, i ritmi del racconto si fanno sempre più spediti e non ci sono situazioni in cui la trama si sofferma ad analizzare il mondo e gli interpreti. Vi è tuttavia un momento in cui viene approfondita la lore dell'universo, con l'introduzione della leggenda del Signore Oscuro, creatore di tutte le cose, e del suo legame con la bacchetta e i Bright: da molto tempo il Signore Oscuro è dormiente e l'unico modo per risvegliarlo è la bacchetta. I Bright sono gli unici a poter usare l'oggetto magico e plasmare un nuovo mondo, portando luce o tenebre. Ci sono due fazioni che vogliono impossessarsi della bacchetta, lo Scudo di Luce e gli Inferni. Tuttavia, questo è l'unico accenno che viene fatto sul mondo, che a conti fatti risulta essere poco particolareggiato, nonostante ci sia molto da scoprire. È evidente che dilaga una sorta di razzismo e di discriminazione nei confronti delle creature fantastiche, ma tutto è appena abbozzato, perché non ci viene affatto mostrato come effettivamente siano trattati gli esseri fantasy; gli scambi di battute tra i protagonisti non sono sufficienti a capire bene in che condizioni vivano.
Se da un lato abbiamo apprezzato l'idea di vedere una realtà in cui convivono umani e creature, senza dare necessariamente spiegazione sulle origini, dall'altro avremmo preferito che venissero analizzati i pregi ed i difetti. Allo stesso modo, anche il contesto storico viene tenuto in disparte, benché sia un elemento cruciale della storia, siccome il periodo Meiji e il rinnovamento non sono scelti a caso, ma in quanto metafora del cambiamento.

Conoscere il contesto storico, avrebbe potuto rendere l'opera leggermente più godibile: una scelta insolita, se si pensa che Bright: Samurai Soul è un film distribuito globalmente e non limitato al solo mercato giapponese. Inoltre, avere qualche nozione sul rinnovamento avrebbe potuto aiutare a comprendere meglio i turbamenti di Izou, siccome il periodo Meiji segna il declino dei samurai.
A tal proposito, i vari personaggi risentono di una costruzione poco particolareggiata, sia i protagonisti che gli antagonisti, in quanto viene fatto solo appena qualche accenno ai loro trascorsi. Sonya è la classica ragazza dal carattere aggressivo, perché spaventata da ciò che le sta accadendo; di lei si sa solamente che viene da una terra lontana, senza alcun riferimento alle sue origini, alla vita precedente o al rapimento.
Raiden, invece, è un orco dalle buone maniere, consapevole che le persone siano spaventate da lui (è in parte ispirato all'oni blu del racconto popolare giapponese Naita aka Oni, l'Orco rosso che pianse). Del suo passato viene detto solamente che nella terra natia ha conosciuto un'elfa, l'unica a trattarlo con benevolenza, ma non viene mai svelato per quale motivo si sia unito ai banditi, se per sopravvivenza o per altro. Infine, Izou è il classico samurai burbero ed impassibile, ma che cerca di portare comunque a compimento la sua missione; in quanto bushi, il rinnovamento lo preoccupa perché potrebbe porre fine alla sua "esistenza", ma non si vive affatto il turbamento per ciò che il futuro ha in serbo per lui. Izou avrebbe potuto essere la figura più complessa della storia, perché tormentato da un evento che lo ha segnato particolarmente e che riaffiora poco alla volta; ma non siamo riusciti ad apprezzarlo, perché ci viene mostrato solo un flashback che lo riguarda, privo di emozioni, ripetuto più volte, con l'aggiunta di nuovi elementi che ci aiutano a capire cosa gli sia accaduto. Ciò che il ronin rivive è legato all'unico colpo di scena del film, totalmente inefficace, poiché diventa palese in cosa consista, dopo aver visto una sequenza del passato più lunga delle altre.
Una luce molto fioca
Bright: Samurai Soul non delude solo sul lato narrativo, ma anche su quello tecnico. Negli ultimi tempi, Netflix sta producendo anime interamente in 3D CGI, alcuni di ottima fattura, come Beastars (qui potete recuperare la nostra recensione di Beastars 2), altri di meno; ma Bright: Samurai Soul è uno dei prodotti Netflix più scadenti ad utilizzare la computer grafica, almeno fino ad ora. 
Dietro la produzione c'è ARECT, uno studio specializzato in CGI e in motion capture: non siamo riusciti a trovare conferme, ma nei titoli di coda sono menzionati gli addetti al motion capturing, quindi non escludiamo che sia stata utilizzata anche tale tecnica, ma questo non giustifica il pessimo lavoro svolto. Iniziamo con il dire che il tratto digitale è grossolano e viene utilizzato per ogni elemento in scena, dai personaggi, agli oggetti scenici: gli "attori" sono spigolosi, mentre gli ambienti esterni sono spogli e lisci; particolare che salta all'occhio soprattutto nei primi piani.
Ci sono pochi segmenti realizzati con uno stile manuale che ricorda dei disegni su carta. Come è facilmente intuibile dal trailer e dai primi minuti, la CGI ha un impatto negativo anche sui combattimenti: benché la regia in queste situazioni sia apprezzabile per i brevi piani sequenza e per alcune particolari inquadrature, gli scontri soffrono di animazioni troppo rigide e di una totale assenza di dettagli, tanto che non si notano affatto le ferite da taglio.
Nonostante l'evidente violenza delle sequenze, non si percepisce la brutalità che li caratterizza. Prima di concludere, vorremmo spendere qualche parola sull'adattamento italiano: Massimo Triggiani e Francesco De Francesco (rispettivamente Izou e Raiden) hanno fatto propri i personaggi, così come il resto del cast di doppiatori, ma l'adattamento nostrano non è eccellente, perché non sono stati tradotti tutti i dialoghi, e spesso ci sono momenti di vuoto, quando in realtà c'è un evidente scambio di battute.