Mind Game Recensione: l'incredibile esordio di Masaaki Yuasa

L'esordio alla regia di Masaaki Yuasa segnò un solco indimenticabile nell'animazione giapponese: vediamo perché è così importante.

Mind Game Recensione: l'incredibile esordio di Masaaki Yuasa
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Quando Mind Game, il lungometraggio d'esordio di Masaaki Yuasa, uscì nel lontano 2004 altri grandi registi d'animazione, in Giappone, andavano nelle sale con opere di tutt'altro stampo: Katsuhiro Otomo, con il suo Steamboy, si era concentrato su un film che seguisse la scia del filone steampunk puro, mentre Mamoru Oshii proseguiva l'adattamento del fondamentale manga di Masamune Shirow, Ghost in the Shell, proseguendo un percorso che aveva avuto inizio nel 1995 con l'uscita della sua versione animata del caposaldo cyberpunk (eccovi la nostra recensione di Ghost in the Shell).

L'esordiente Yuasa preferiva dare vita a un mondo atipico, sgangherato, fuori dai canoni e dalle regole convenzionali - tanto dell'animazione quanto della narrativa. Forse è per questa ragione che alla sua uscita Mind Game si rivelò un flop al botteghino: un destino comune a molte opere che provano a fare qualcosa di nuovo, talvolta anticipando i tempi. Eppure oggi, dopo tanti anni, è impossibile non riguardare Mind Game e rendersi conto che senza quel percorso, aperto all'epoca da un regista esordiente, l'animazione sarebbe più povera.

Una partenza col botto

Una corsa per raggiungere la metro, le immagini di passato, presente e futuro che si alternano, una balena in CGI, un robot che ricorda Astro Boy, un SMS che recita "La tua vita è il risultato delle tue decisioni", il tutto condito da un montaggio serrato e incalzante: è questo l'incipit caleidoscopico con cui Masaaki Yuasa esordisce nel mondo del lungometraggio animato.

Come se non bastasse, l'autore di Devilman Crybaby (recuperate la nostra recensione di Devilman Crybaby) decide di condensare nei primi tre minuti del film - che già contengono in nuce tutti gli elementi che poi vedremo approfonditi nel corso della visione - diversi stili animati: si va dal tradizionale al 3D digitale passando per l'utilizzo di filmati girati in live action, per poi chiudere in bellezza su una margherita che ruota come una girandola e sui cui petali leggiamo il titolo del film: Mind Game. Tre minuti così densi che è impossibile per lo spettatore non porsi un'infinità di domande su cosa è appena successo, ma anche tre minuti nei quali rimanere abbagliati dalla visione di un meltin pot di stili e di colori che lasciano intuire che la matita di Yuasa è un fiume in piena.

Poi, il ritmo del film comincia ad assestarsi e iniziamo a capire cosa sta succedendo: il giovane Nishi, un ventenne aspirante mangaka, ha appena incontrato Myon, amica d'infanzia di cui è sempre stato innamorato. La ragazza confessa che sta per sposarsi, ed è qui che inizia a inserirsi uno dei temi principali del film: cosa sarebbe accaduto, se avessi preso un'altra decisione? È proprio questa la domanda che Yuasa mette addosso al suo protagonista, ma che implicitamente rivolge anche a tutti noi. Nishi, appresa la notizia, implora la ragazza di non sposarsi, di sposare lui invece; ma poi scopriamo che questo breve siparietto si è svolto solo nella sua testa, la testa di un perdente incapace di prendere la propria vita sulle spalle e viverla appieno.

Questa incapacità di farsi carico delle proprie decisioni si ripete subito dopo, alla locanda gestita da Myon assieme alla sorella Yan, ma questa volta l'escalation di tensione costruita durante questa prima fase del racconto avrà tutto un altro effetto, e a pagarne il prezzo sarà proprio Nishi: in balia del gangster della yakuza Atsu, Nishi prova a ribellarsi, ma è troppo debole e un proiettile del gangster lo trapassa da parte a parte.

A questo punto, la narrazione svolta: se fino a questo momento avevano dominato i colori forti e se lo stile animato e visivo di Yuasa quasi costringeva lo spettatore a un senso di oppressione continuo, la morte di Nishi ci proietta in una pausa narrativa che sembra anche una pausa visiva: il limbo oltre la vita, nel quale Nishi termina, è dominato dal nero più totale, ma anche da inserti 3D e da un enorme computer, come se adesso che la sua vita è finita, tutto fosse da riprogrammare.

Poi, Nishi tira giù il velo e il nero diventa bianco, il limbo un paradiso, dove ad attenderlo c'è Dio. E com'è Dio secondo Masaaki Yuasa? Che aspetto ha? Qualsiasi, ovviamente: purché Nishi riesca a decidere che aspetto egli debba avere, a scegliere. Eppure Dio lo sbeffeggia, si fa gioco di lui, continuando a cambiare aspetto proprio perché Nishi non sa decidere: neppure a quel punto, quando la sua vita è già terminata, Nishi sa prendere una decisione.

È a questo punto, quando tutto sembra già finito, che Nishi decide che non è così che deve andare: cosa accadrebbe, se fossi in grado di decidere di testa mia? Così facendo, Nishi decide di sfidare il proprio fato, prendere in mani le redini e riscrivere la sua storia: torna indietro e si rigetta nella mischia, ma adesso, ovviamente, le cose sono diverse.

Prende le due sorelle e scappa dai ganster, in una fuga in macchina che ha il sapore della follia da ribelle senza causa, e che Yuasa mette in scena con una regia ispiratissima, con l'utilizzo di visuali tremolanti, soggettive, campi e controcampi che ci danno la misura dell'inseguimento - il tutto dominato da tonalità blu e rosso accese: è il film che sta svoltando, cambiando faccia. Poi, il capolinea: la macchina di Nishi salta giù da un ponte e una balena - proprio quella che abbiamo visto a inizio film - li inghiotte. Fine della corsa.

Prendere in mano la propria vita

La seconda fase del film rappresenta l'esatto contrappunto narrativo rispetto alla prima: se fino a questo momento aveva dominato la costruzione dei personaggi e Yuasa si era preoccupato di fornirci le dinamiche che intercorrono fra di loro, questo secondo tempo viene utilizzato per la decostruzione dei

caratteri e per rielaborarne la psicologia, facendogli attraversare un vero e proprio percorso di crescita che passa dall'incontro, all'interno della balena, con un uomo che abita in questo luogo da ormai 30 anni. Anche lui, a modo suo, è stato incapace di prendersi le sue rivincite, non è stato - almeno fino a quel momento - padrone delle proprie scelte, ha subìto la vita.
In questo luogo al di fuori dal mondo, e quindi privo delle pressioni sociali a cui ognuno è quotidianamente esposto, Nishi, le due sorelle e il vecchio vivono una sorta di percorso di purificazione, di iniziazione, come se a ricostruirsi fosse non solo la fiducia in se stessi ma anche il senso del vivere, che ognuno di loro, sia privatamente che collettivamente, riconquista.

Per mettere in scena questa sorta di nuova fioritura, di voglia di vivere che sboccia nuovamente, Yuasa decide di calcare ancor di più la mano con la sua animazione: al meltin pot stilistico visto finora si aggiunge una tavolozza di colori ancora più spinta e a tratti dai toni lisergici, un uso brillante del 3D (come quando i ragazzi parlano al vecchio di "sushi che gira", riferendosi ai nastri trasportatori di un All You Can Eat), ma anche la presenza di sfondi di alta qualità per descrivere e ritrarre gli ambienti e l'interno della balena e l'uso di un montaggio serratissimo, che torna nelle fasi della narrazione più psichedeliche.

Tutto, però, è in funzione della crescita dei protagonisti, un percorso che li vede maturare sia psicologicamente che fisicamente, attraverso la presa di posizione rispetto ai se stessi del passato: l'esempio emblematico è senza dubbio quello del taglio dei capelli di Yan, un gesto simbolico che testimonia la sua voglia di trovare una nuova direzione, nuovi stimoli.

Il viaggio di apprendimento dei quattro termina grazie a una fuga impossibile e rocambolesca, una fuga che è a un tempo un percorso di liberazione e di nuovo reinserimento nel mondo: dopo essere riusciti a fuggire dalle viscere della balena i quattro non solo sono completamente mutati e hanno vinto le proprie paure, ma hanno anche capito che l'unico modo per stare al mondo è quello di rendersene parte, di non fuggire dalla realtà, di essere padroni delle proprie scelte, proprio come recitava l'SMS scritto da Nishi a inizio film: solo così si possono cambiare le cose.

E Yuasa, a conferma di ciò, le cambia davvero, facendoci rivivere la primissima scena del film, ma mutandone il risultato: ripercorriamo la corsa di Myon fino alla metro, ma questa volta le cose vanno diversamente. Le vite dei personaggi, tutte intrecciate fra loro, si intrecciano nuovamente nel montaggio finale, serrato e frenetico proprio come lo era stato quello iniziale, ma a suonare questa volta c'è una samba malinconica, che ci accompagna fino ai titoli di coda: la storia, almeno in linea teorica, è finita. Ma Yuasa ci tiene a mostrarci un'ultima, emblematica frase che chiude il film: "Questa storia non è mai finita". Siamo sempre padroni delle nostre scelte: basta deciderlo.


Una vittoria nel tempo

Yuasa, sin dal suo esordio, ha dimostrato di avere una grande padronanza del ritmo narrativo e della caratterizzazione dei personaggi: Mind Game è un film che non annoia quasi mai, nonostante all'inizio possa sembrare leggermente disorientante per lo spettatore; al contrario, appena il film decolla siamo subito catapultati in una spirale di situazioni e visioni inedite, spaziando dal dramma personale alla commedia più classica. L'impressione, guardando l'opera dopo così tanto tempo, è che Yuasa avesse già le idee chiare e che abbia inserito nel suo primo film da autore vero e proprio - e forse anche il suo contributo più importante al lungometraggio animato - il seme di tutti gli elementi che poi avrebbe approfondito attraverso tutte le sue opere successive.

Raramente capiterà di vedere un anime d'esordio più fuori dagli schemi, più atipico e più surreale. Oltre che un dichiarato inno alla vita, Mind Game è una vera e propria esperienza di crescita e presa di coscienza sul nostro stare al mondo. Non c'è dubbio che le opere più recenti di Yuasa abbiano dimostrato spesso una maturità diversa e un controllo forse maggiore dei tempi e della messa in scena, ma la parentesi Mind Game resta ancora oggi un tentativo forse irripetuto di fare animazione usando ogni mezzo a propria dispisizione.

Mind Game L'opera prima di Yuasa, un racconto atipico dai toni lisergici e disomogenei, dimostra di essere un caposaldo che ha saputo superare la prova del tempo e al contrario, come un buon vino, con l'età è riuscita a migliorare e acquisire tono e sapore. Aiutato da un comparto produttivo che si è dimostrato in grado di supportarlo alla grande grazie al contributo di Studio 4°C, oltre a una colonna sonora (prodotta da Shin'ichiro Watanabe e che vanta persino un pezzo della mitica Yoko Kanno) appropriata ai toni unici e del tutto sui generis del film, Yuasa ha confezionato un film che funziona da filo conduttore fra l'animazione di ieri e di oggi, un'opera che è la perfetta sintesi della sua personale idea di animazione, ma anche di chiunque aspiri a spingere l'asticella del mezzo sempre più in alto.

8.3