Hunter x Hunter: Yoshihiro Togashi e l'amore per i videogiochi

Con la saga di Greed Island, Yoshihiro Togashi ha messo in scena tutta la sua passione per i videogiochi: vediamo assieme in che modo.

Hunter x Hunter: Yoshihiro Togashi e l'amore per i videogiochi
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C'è una scena, durante la saga di Greed Island di Hunter X Hunter, che riassume molto bene cosa rappresentino i videogiochi per il creatore dell'opera, Yoshihiro Togashi (al di là di tutto, comunque, leggete anche perché secondo noi Hunter x Hunter è uno degli shonen migliori di sempre). Durante lo scontro a palla avvelenata contro Razor, uno dei Game Master dell'isola, la squadra di Gon, Killua e Hisoka si ritrova fra le mani con la concreta chance di vittoria. Hisoka capisce infatti che per vincere la partita è sufficiente fare particolare attenzione ai lanci infuocati di Razor; ma è a quel punto che Gon si intromette nella discussione e pronuncia la sua sentenza: "Non è così che vinceremo" dice Gon, sorprendendo anche Killua. "Non voglio una vittoria di comodo. Io voglio stracciarlo".

Lo shonen come videogioco

Il desiderio di Gon di giocare al massimo delle sue possibilità, rispettando fino in fondo il rigore del gioco, è tipico del suo personaggio, ed è solo grazie a questa forma di sincerità infantile commista a ingenuità che alla fine, quando lui e i suoi compagni riescono nell'impresa di sconfiggere Razor, la vittoria ha un sapore ancora più dolce.

Gon, pur essendo solo un ragazzino, sa che la crescita passa attraverso conquiste che spesso si pagano a un prezzo tangibile, un prezzo pagato di prima mano: non è possibile ottenere qualcosa senza in cambio cedere qualcos'altro. Il risultato - e la strada attraverso cui esso viene ottenuto - fanno fare a Gon, così come sembra proporcelo Togashi, un vero e proprio level up. Che quella di Greed Island sia infatti la saga dove più di ogni altra il lettore (o anche lo spettatore) ha la sensazione di crescere con i personaggi, di vederne progressivamente gli sviluppi fisici arrivando a comprendere sin quasi a livello fisiologico il funzionamento del nen, non è certo un caso; e a non essere casuale è anche la scelta, da parte di Togashi, di far compiere un grande salto di maturazione fisica e psicologica al suo protagonista e allo sparring partner Killua attraverso alcuni meccanismi tipici del linguaggio del videogioco.

Ma perché? Per quale ragione Togashi ha scelto di utilizzare meccaniche da videogioco come colonna portante della maturazione dei suoi personaggi, oltre che del worldbuilding di Greed Island? Quello che sappiamo con certezza è che l'autore del manga, pubblicato da Shueisha dall'ormai lontano 1998, ha sempre dichiarato grande amore per i videogiochi e per i giochi da tavolo: un amore che si mostra nelle logiche ferree con cui Togashi struttura il suo worldbuilding fino al dettaglio, dall'esposizione precisa e maniacale del funzionamento dei flussi corporei - con tanto di diagrammi, percentuali, schemi alfanumerici del tutto coerenti - per arrivare a elementi all'apparenza più triviali e di poco conto, come le regole della palla avvelenata o quelle con cui i mercanti col pallino per l'arte sgamano la merce contraffatta.

Su ogni questione, di primaria importanza o irrilevante che sia ai fini del racconto, il sensei fa discutere i suoi personaggi sempre e solo come si trattasse di vita o di morte. E questo, nella saga di Greed Island, non solo è la chiave di lettura che ci dà accesso alle logiche del worldbuilding, ma l'elemento principale che manda direttamente avanti la narrazione. La domanda che segue non è di poco conto: come è riuscito Togashi a portare il linguaggio frammentario del videogioco all'interno di quello del fumetto fino a fonderli in un unico mezzo? Che stratagemmi ha adottato, e soprattutto che conseguenza ha tutto ciò sul lettore (o sullo spettatore) in termini di comprensione del racconto? Proviamo a scoprirlo insieme, ripercorrendo le principali scelte messe in atto da Yoshihiro Togashi per il suo manga, ricordandovi che Hunter x Hunter è tornato di recente con il capitolo 391.

Un lungo viaggio dentro il gioco

La saga di Greed Island ha la particolarità di cominciare prima del suo inizio vero e proprio: di fatto noi veniamo introdotti ad alcuni concetti fondamentali del gioco prima ancora che Gon e Killua riescano ad accedere all'isola, grazie alla presentazione di console e periferiche di gioco necessarie all'accesso lasciate in eredità da Jin a suo figlio.

La saga che segue (eccovi il riassunto della saga di York Shin City in Hunter x Hunter), se apparentemente sembra allontanarci dall'ingresso vero e proprio in Greed Island, in realtà è il viatico, in termini di esperienze, grazie al quale i due riescono a farsi trovare pronti nel momento in cui cominciano le selezioni per accedere all'isola. Prima ancora di iniziare, Greed Island mostra uno dei suoi meccanismi fondamentali, tipici del videogioco e in particolare dei GDR tanto cari a Togashi: l'esperienza. Quando Gon e Killua riescono finalmente ad accedere all'isola, a riprova di ciò subiscono subito una doccia fredda. Giusto il tempo di mettere piede su Greed Island e un nemico si materializza al loro cospetto: Gon e Killua, ancora inesperti delle nozioni di gioco, non estraggono il Libro, strumento di difesa per antonomasia all'interno delle meccaniche dello stesso, dimostrando di essere soltanto due principianti.

In questa fase iniziale, oltre all'esperienza, a mancare ai due è anche l'insieme delle regole principali attraverso cui si gioca. I due compensano grazie all'enorme forza fisica, ma quello che insegnano i videogiochi è che a discapito delle nostre caratteristiche e inclinazioni personali, per vincere è necessario possedere una mente elastica e la predisposizione al funzionamento di quelle regole: a vincere non è il più forte, ma chi comprende meglio i meccanismi.
Per far sì che questo squilibrio si compensi, è necessario allora seguire un vero e proprio tutorial di gioco, in modo tale che i due possano mettere la propria forza fisica al servizio del regolamento. E qui, Togashi apre un mondo nel suo mondo.

Comincia la descrizione di un sistema fatto di schemi, carte da collezione, strategie, classificazioni, gerarchie di rarità, tassonomie di gioco, regole - ma attenzione: tante sono le regole scritte quante quelle non scritte. Seguendo il linguaggio tipico della nozione di gioco, la fantasia e la creatività non vengono inibite dalle regole, al contrario: esse si dànno nel momento in cui le regole sono comprese al loro meglio, e così fanno Killua e Gon nel momento in cui "superano" il tutorial, iniziando a pianificare una serie di strategie, tattiche, sotterfugi, tutti non previsti dalle regole, eppure resi possibili da esse.

A testimonianza del grande estro creativo di Togashi - che evidentemente quando si tratta di nozioni inerenti a quelle di gioco e videogioco sguazza nel suo - il tutorial affrontato da Gon e Killua non è didascalico e scontato; non si tratta di leggere una serie di regole e impararle a memoria, di scorrere il libretto delle istruzioni per poi applicarlo alla cieca, ma di imparare giocando.

Utilizzando questa logica, Togashi dimostra di essere, oltre che un valido fumettista, anche un vero e proprio game designer, perlomeno in termini di impostazione e predisposizione mentale. Per farlo, Togashi indossa i panni del suo Jin, che a conti fatti è lo "sviluppatore" vero e proprio di Greed Island. E qui entra in gioco una delle dinamiche più importanti della saga, quella fra maestro e apprendista, fra padre e figlio.

Il desiderio di ogni game designer è infatti quello di essere battuto, prima o poi, da coloro che giocano al suo gioco: nessuno creerebbe un videogioco impossibile da portare a termine, cosa che quasi per definizione renderebbe quell'opera non commercializzabile, oltre al fatto che scoraggerebbe sul nascere le ambizioni dei giocatori; ma tanto più è difficile l'impresa - seppur fattibile - più aumenta la sensazione di premio fornita dal gioco stesso. Jin è esattamente un game designer di questo tipo: vuole che al suo gioco si possa vincere, ma solo a patto di consacrare tutti sé stessi.

Non è un caso se Gon, più volte sia prima che durante la saga, si ripeta nella mente quale fosse il desiderio del padre: "Ma allora Jin ha creato questo gioco solo per farmi vedere di cosa era capace?" pensa Gon, quasi come se Greed Island nella sua interezza fosse un grande esercizio di stile da parte di Jin, una pratica di ostentazione delle sue capacità.

In realtà è l'esatto opposto: Jin ha creato Greed Island perché vuole che sia Gon a mostrare a lui di cosa è capace. Non un ti faccio vedere cosa ho fatto ma un fammi vedere cosa sai fare tu. È anche per questo che Gon, durante le varie fasi di gioco, dimostra più volte un atteggiamento corretto e irreprensibile, rispettando sempre regole di condotta anche etiche: Gon vuole vincere al gioco creato da Jin seguendo le sue regole, quelle di suo padre, perché utilizzare scappatoie o sotterfugi non pianificate dal game designer equivarrebbe a barare, utilizzare un cheat. Battere Razor? Non basta: bisogna stracciarlo sbattendogli in faccia le sue stesse regole.

Questo atteggiamento di Jin è tipico della psicologia del game designer: c'è una certa fierezza in chiunque crei un videogioco tale per cui il designer, in cuor suo, vuole essere battuto da almeno un giocatore. Si tratta di un vezzo paragonabile a quello dell'illusionista, che mostra il suo spettacolo pur sapendo che nella mente dello spettatore non se ne andrà mai la domanda Come ha fatto a ingannarmi?, quasi sfidandolo a capire il trucco. Il videogioco possiede nel suo linguaggio di fondo quell'idea di sfida, di puzzle, e il game designer - in questo caso Jin è un vero e proprio demiurgo - vive l'ebbrezza della sfida tanto quanto il giocatore, seppur in modo diverso.

Il padre nutre una fiducia forse eccessiva nei confronti del figlio, eppure egli è il primo artefice del "level up" di Gon di cui parlavamo all'inizio. Ogni videogioco - specie quelli che adottano meccaniche da GDR - posseggono una sorta di soglia di entrata per il giocatore, un punto nel quale sembrano dirgli "Da qui in poi si fa sul serio: o impari o soccombi". È proprio grazie a questo meccanismo che Gon e Killua crescono e fanno progressi.

Ci sono diverse fasi in cui il lettore ha questa sensazione, ma quella dove questo tratto del videogioco si fonde al meglio nella narrazione è forse quello dove i due ragazzini, aiutati dalla nuova mentore Biscuit, imparano rigorosamente diverse tecniche di utilizzo del nen: dopo una sorta di fase di grind vero e proprio - che richiede tempo, sudore e dedizione - i due imparano a padroneggiare mosse e tecniche a loro prima sconosciute. E non è un caso se Biscuit, proprio in questo passaggio, pronunci la frase più emblematica di tutte: "Quelli che hanno ideato questo videogioco sono proprio in gamba" dice Biscuit. "Se si segue il giusto ordine, questo programma permette di aumentare le reali capacità del giocatore". Comprensione, strategia, soluzione: è il meccanismo tipico di risoluzione di ogni puzzle proposto da un videogioco a un giocatore.

In questo modo, e quasi collateralmente, Jin realizza anche la più grande velleità e il più grande desiderio di ogni game designer, quello cioè di essere un pedagogo, un insegnante. In quanto puzzle, il linguaggio dei videogiochi ci spinge sempre al superamento dei nostri limiti, alla comprensione delle meccaniche di fondo e quindi delle regole surrettizie che sono state create affinché l'artificio possa essere messo in piedi in modo credibile, generando risultati tangibili.

Questo meccanismo di fondo, quello cioè di insegnare attraverso la sfida, è un tratto tipico dell'apprendimento umano - specie nelle fasi della vita in cui ancora colleghiamo direttamente sfida e apprendimento, gioco e insegnamento: collezionare le carte per completare un albo, battere il nemico più forte, comprendere le regole al meglio della loro struttura logica, tutte cose percepite durante le fasi della crescita umana come sfide più che come oneri, ed è questo tira e molla fra desiderio di apprendimento e appagamento a tenere viva l'attenzione, proprio come Gon non riesce a fermarsi anche quando sa che i giochi sono ormai fatti, ma vuole dare il cento per cento e battere Razor seguendo fino in fondo e con nobiltà le regole della palla avvelenata.

Senza quel tipo di nobiltà d'animo un po' ingenua, senza quel circolo virtuoso che si alimenta costantemente fra desiderio di sfida e appagamento, non si avrebbe il vero apprendimento, e le ragioni stesse per cui il gioco creato da suo padre è stato montato ad arte verrebbero a mancare, troncate sul nascere. Una cosa che solo lui può capire, a costo di tirarsi dietro le critiche (e gli schiaffoni) dei più pragmatici Hisoka e Killua.

Eppure manca ancora un tassello: come far diventare alcune meccaniche tipiche del linguaggio del videogioco un elemento narrativo, oltre che di maturazione psicofisica? Per capirlo, dobbiamo interrogare ancora una volta Togashi e le sue passioni.

L'amore per il collezionismo e per il completismo

In un passaggio del suo manga, proprio durante lo scontro fra la compagnia di Jin e Razor, Togashi comincia a fare la cosa che più lo diverte e a mostrare il suo più grande feticcio: fra un capitolo e l'altro, l'autore elenca una a una tutte le cento carte necessarie per completare il libro da gioco e, così facendo, vincere. Quello di Togashi in questo caso è un uso molto interessante degli spazi a sua disposizione: anziché lasciare una tavola bianca fra i capitoli - magari riempiendola con il classico sketch di secondaria importanza - lui sceglie di far diventare quegli interstizi il luogo principale in cui il lettore può sfogarsi e comprendere il gioco al suo meglio.

Il cuore di Greed Island batte lì, in quelle pagine di solito bianche fra i capitoli: non nei disegni, non nelle tavole splatter e neppure nelle macchinazioni della Brigata Fantasma, ma in quelle cento descrizioni, che assomigliano quasi alle stringhe di codice di programmazione del gioco - oppure a un bestiario o un inventario ricco di descrizioni.

È evidente che per Togashi le regole non sono un'appendice al racconto, ma l'istanza principale attraverso cui la storia viene raccontata. E questa è, purtroppo, un'importantissima sfumatura andata persa nella traduzione da manga a serie animata, dove non si ha il tempo né il desiderio di esporre la struttura fondamentale del gioco con altrettanta decisione.

Per Togashi c'è solo un modo per terminare il gioco, vale a dire farlo al cento per cento. Non esiste compromesso, non c'è alcuna vittoria di comodo - proprio come dice Gon riferendosi a Razor: la vera sfida è quella da tutto o niente.
Per raggiungere questo obiettivo e rendere la comprensione delle regole la strategia narrativa più importante, Togashi utilizza un meccanismo ben preciso e per cui possiede un debole personale, vale a dire il collezionismo. Per vincere in Greed Island noi dobbiamo "platinare" il gioco, e questo è il solo e unico modo per farlo. Completare il gioco al 99% ci lascia comunque incompleti, equivale a non aver terminato la partita. Ma per Jin - e quindi per Togashi - l'unica condizione accettabile è quella di arrivare al cento per cento, e solo chi ha il coraggio e la fortuna di spingersi a tanto potrà dire di aver terminato storia e partita.

L'esatto opposto di quanto avviene nella norma: nei videogiochi solitamente la questione collezionismo o completismo è secondaria, ed essa viene risolta dal giocatore solo in seconda battuta, dopo che quelli che i designer ritenevano essere i tratti principali del gioco sono stati archiviati.

Attraverso la fusione di videogioco e fumetto, Togashi ambisce al massimo risultato del suo storytelling: a una diminuzione delle possibilità offerte da narrazione e worldbuilding aumenta lo spazio di creatività e di approfondimento dei personaggi, e ad emergere è un senso di necessità della narrazione, dell'ingranaggio letterario, come se l'impalcatura messa su da Togashi non potesse che portare a quell'unica risoluzione.

In questo modo, con la saga di Greed Island Togashi si comporta da fumettista e da game designer - un designer del tutto particolare a dire il vero. Il risultato è che il lettore, proprio come Gon, potrà dire di essere venuto a capo degli enigmi e della trama solo dopo aver compreso appieno tutte le regole ed esplorato tutte le carte da gioco, che non sono un semplice elemento a margine o una nota a piè di pagina nella narrazione, ma l'esposizione del vero meccanismo di gioco, e quindi del suo meccanismo letterario. Leggere adesso equivale a giocare, collezionare equivale a narrare.