Speciale Omohide Poro Poro

Il secondo film di Isao Takahata: fantasia e malinconia nel Giappone moderno

Speciale Omohide Poro Poro
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Della vita l'infanzia è una stagione magnifica. Sicuramente non incide indelebilmente sull'individuo come la successiva adolescenza, ma le emozioni, i ricordi, i sapori, i dissapori, gli odori dei primi anni di vita, quelli ci accompagnano per l'intero corso della nostra esistenza, li tramandiamo ai nostri figli, poi ai nostri nipoti e infine li stringiamo a noi sul letto di morte, in quanto momenti di totale innocenza. Gocce di memoria. Attimi felici che non ci lasciano più, sorrisi ai quali ci aggrappiamo.
Così è Omohide Poro Poro (la cui traduzione in italiano può essere "Memorie goccia a goccia") di Isao Takahata, film di animazione prodotto dallo Studio Ghibli. La pellicola uscì nelle sale nel 1991, tre anni dopo il lungometraggio di debutto del papà di Heidi, "Una Tomba per le Lucciole", struggente dramma su due orfani nel Giappone belligerante della Seconda Guerra Mondiale.
Nel frattempo l'animo del regista cambia, in parte per influsso di Hayao Miyazaki e del suo "Kiki Consegne a Domicilio": se il precedente film possiede un'esuberante energia, una voglia di fare, Omohide Poro Poro è, invece, più pacato, meditabondo, intimo. E' il mio film, un'avvincente introspezione nel mio passato, nel passato di ogni spettatore. Takahata lesse il manga "Omohide Poro Poro", storia di Hotaru Okamoto, illustrazioni di Yuko Tone: trattasi di una narrazione shojo in tre volumi, collage di storielle dell'undicenne Taeko.
Takahata decise quindi di trasportarlo sul grande schermo, ma alle sue condizioni. Va dato atto che si tratta di un mero spunto, una lettura sommaria del manga, che trattiene sopratutto l'atmosfera nostalgica e melanconica, ma anche la sagace ironia attraverso cui tratta i grandi temi preadolescenziali. L'idea di impiegare come narratore il continuo rimando tra l'infanzia di Taeko, come raccontata nell'originale cartaceo, e l'età adulta, è in toto dello sceneggiatore Isao Takahata, che così facendo ispessisce le tematiche del plot originale. Alla fine, quando uscì, il film fu un successo clamoroso in Giappone, campione d'incassi tra l'animazione per l'anno 1991: il coraggioso "Una Tomba per le Lucciole", da molti accostato allo "Schindler's List" di Spielberg, assunse lo stato di unicum all'interno della cinematografia di regista nipponico, laddove Omohide Poro Poro si rinsalda senza fratture ai suoi successi giovanili, Heidi e Anna dai Capelli Rossi.

Peccati di gioventù

La pellicola in sé si dipana in due ben precisi anni, il 1966 della Taeko Okajima bambina e il 1982 della Taeko Okajima ventisettenne, donna in carriera e non ancora sposata. Le due dimensioni temporali, però, non sono compartimenti stagni, ma si contaminano a vicenda, si confrontano, l'una vaglia l'altra, la critica. Takahata sfrutta la semplicità del montaggio di un film d'animazione per giocare con le immagini, per calibrare il suo talento registico, ma sopratutto per rispondere alla domanda di fondo del film: la Taeko del'82 è quella che la sua controparte del'66 desiderava essere, la visione della vita è rimasta coerente in tutti questi anni, fedele alle aspirazioni di gioventù?
In un finissimo parallelismo tra le due epoche, il regista esplora la crescita di una ragazza, la sua trasformazione, ma anche la sua integrità morale. E', più generalmente, un racconto "di formazione" che segue la vita e il costume nipponico nell'arco di vent'anni, dalla ricostruzione postbellica (e quindi post-"Una Tomba per le Lucciole") all'età del benessere economico. E in questo Takahata è molto critico: classe 1935, osservatore attento della trasformazione del Giappone moderno, non risparmia giudizi su molte istituzioni del suo Paese, la famiglia anzitutto.
E ciò si riflette nella sua opera cinematografica. Il padre, freddo e autoritario, sa bene che il proprio ruolo è quello di mantenere i sei membri da cui è composto il nucleo familiare: egli è l'unico lavoratore, per questo l' "etica professionale" gli impone di non impiegare le proprie energie in altre attività, siano esse l'educazione delle tre figlie. A ciò è deputata la moglie, che segue le faccende domestiche e la prole, Taeko e le sue due sorelle maggiori. Trattasi quindi di un assetto tradizionale, di una esatta ripartizione dei ruoli; l'esatto opposto delle ambizioni della Taeko ventisettenne, "esprit libre" e totalmente immersa nel suo lavoro. L'attrito, però, tra le due visioni della famiglia non pare essere nella ragazza, quanto piuttosto nella società, una delle tante conseguenze dell'esplosione dell'economia giapponese, dell'aggressività del guadagno e della vita frenetica di città. La ragazza nella sua purezza d'animo, è grata dell'educazione austera che ha ricevuto in tenera età. Difatti, al contrario della Kiki di Miyazaki, icona dell'emancipazione femminile, resasi indipendente per necessità di "carriera" come streghetta, Taeko segue una direttrice comune a molte sue coetanee; è cosa naturale per lei rimandare a data da destinarsi il matrimonio, ma non è certo suo desiderio negare una futura unione.
Più che da un ragionato calcolo, le sue azioni sono dettate dalla passionalità, dall'istinto e, sopratutto, dal ricordo. Attimi, parole ed emozioni le rammentano momenti lontani, da cui, e su questo Takahata insiste molto, si possono sempre ottenere utili consigli. E così, la campagna negata delle vacanze estive di diciassette anni prima, muove il desiderio di trascorrere "dieci giorni di ferie" a "Yamagata", regione montuosa nel Nord del Paese, per partecipare alla raccolta del cartamo. Taeko è qui ospite della famiglia del marito di sua sorella Nanako, una famiglia tradizionale che vive a contatto coi campi e si nutre dei frutti della terra. E' proprio nel corso di queste vacanze che conoscerà Toshio, cugino del marito di Nanako, il quale la aiuterà nel suo processo mnemonico, che avrà come punto di arrivo la presa di coscienza del sentimento reciproco che li lega. I due convergono nel vedere la semplicità insita nella vita, semplicità che si manifesta attraverso l'amore per la coltivazione: tra i due si instaura una vivida simpatia sin dal primo momento, nonostante sia presente la proverbiale distanza tra città e campagna. Toshio pare incarnare più di tutti la visione di Takahata sull'assetto sociale del moderno Giappone: a un certo punto del film stigmatizza il comportamento di quei contadini, che, rei di aver "sempre seguito la massa, e dopo essersi trasferiti nelle grandi città", hanno perduto la loro identità, hanno anteposto il facile benessere economico alle "tradizioni contadine".
"Dobbiamo ripensare a cosa è 'veramente salutare' " sentenzia infine Toshio, stemperando subito dopo la seria atmosfera con una simpatica risata. Taeko sin dal primo momento ammira la passione che il ragazzo mette nel proprio lavoro, la esalta e la celebra: la regia, fissa sugli stati emozionali della ventisettenne, asseconda il progressivo annullamento del suo spirito "cittadino", per fare posto all'incondizionato amore per la campagna e, quindi, per Toshio. Vi è in questo un passaggio, un progressivo ritorno a uno status sociale precedente al secolo Ventesimo, che affonda le radici nel Giappone dell'Anno Mille.
Tutto ciò ha una sola possibile chiave di lettura: processare l'irrefrenabile ritmo dell'industrializzazione, predicare un ritorno alla purezza "agricola". Tutti temi che portano direttamente alla successiva pellicola del regista, "Pompoko" del 1994, il quale a sua volta influenzerà notevolmente "La Principessa Mononoke" di Miyazaki (1997). Il mutuo rispetto tra contadini e natura porta l'unico effetto possibile: la trasformazione dei campi in punti di incontro tra le due specie, luoghi ove si perpetua il ciclo della vita. E' un rapporto consolidato da migliaia di anni, che ha come unico risultato "l'interdipendenza tra natura e uomo" spiega Toshio, e forse "è proprio questa la 'campagna' ".
Ed è proprio in queste affermazioni che la protagonista ritrova il vero senso del suo legame con la terra e l'aria salubre, tanto da domandarsi perchè si sente "come se questa [la campagna] fosse la sua casa". Eppure quando sul finale le viene proposto dai parenti del marito di sua sorella di "diventare la moglie di Toshio" essa diviene reticente: nasconde quello che esattamente prova, nasce una spaccatura in sé stessa di fronte alla cruda realtà. Scegliere la città o scegliere la campagna, scegliere l'approdo sicuro o l'ignoto, la carriera o l'amore, due mondi opposti destinati oramai a una impossibile riappacificazione.
Di fronte alla proposta Taeko corre, fugge via: sa bene che l'unico arbitro in grado di sciogliere tale dubbio è Toshio. E invece no. Nella mente di Taeko riaffiora l'immagine di Abe-kun, ragazzino che conobbe alle scuole Elementari: apparteneva a una famiglia povera ("non aveva neanche un uniforme scolastica"), era sudicio ("si soffiava forte il naso sulle maniche o si infilava le dita nel naso") e trattava la bambina a male parole ("se cercavi di guardarlo ti minacciava dicendo 'Vuoi essere picchiata?' "). Takahata per questa "memoria" non si affida alla tecnica utilizzata nei precedenti spezzoni, ma sovrappone via via l'esperienza infantile con la contemporaneità, fino a quando quest'ultima non prevale del tutto, attimo in cui una composta Taeko ripercorre le tappe del suo rapporto con Abe fino al punto in cui quest'ultimo è prossimo a trasferirsi in un'altra città, ma non vuole assolutamente salutarla.
E mentre lo spettatore s'attende una convincente risposta dalla protagonista o tutt'al più da Takahata, Toshio le risponde con sicurezza: "Forse tu piacevi così tanto ad Abe che lui non voleva stringerti la mano per salutarti?". Sai, "anche io [Toshio] facevo piangere apposta una ragazza che mi piaceva", sicuramente non voleva salutare nessuno degli altri compagni di classe, "ma con te [Taeko] poteva essere sincero dicendo 'Non voglio stringerti la mano' ". E' a questo punto che sia la vicenda nel passato che quella nel presente trovano soluzione: "Non posso perdonarmi di averlo ferito, evitandolo" sottolinea la ragazza. Ma a chi si rivolge? Ad Abe certo, ma anche a Toshio, dal quale è improvvisamente scappata, temendo il futuro sviluppo della vicenda. Sviluppo che solo in quel preciso istante gli divenne finalmente chiaro: "sorpresa da come era stata consolata da Toshio" per la prima volta si chiese "quali fossero i suoi sentimenti" verso il ragazzo, anticipando una risposta futura affermativa alla proposta di matrimonio. In questo, in queste minuzie narrative, in queste chicche di montaggio, risiede tutta la freschezza e la genialità della regia di Isao Takahata, capace di fissare su pellicola emozioni e sentimenti con grande semplicità, ma anche con un acume critico certamente fuori dal comune.

Gocce di memoria

Si è già sottolineato abbastanza che il film non è una diretta trasposizione del manga. Le vicende del 1982 sono tutte frutto della matita di Takahata, eppure, come già si è fatto cenno, le sequenze tratte dall'originale cartaceo diramano non pochi aspetti sul carattere di Taeko, si interrogano sulla maturazione della protagonista e dettano l'atmosfera nostalgica comune a tutta la pellicola. Come si è visto poc'anzi, "memorie" passate all'apparenza banali diventano un'importantissima chiave di lettura per capire il meccanismo psicologico dei personaggi e il perchè delle loro azioni/interazioni. Più che alla nostalgia questo insieme di situazioni d'infanzia guarda alla meraviglia, alla scoperta: lo si può cogliere sin dall'inizio, da quando il padre di Taeko porta a casa un frutto tropicale, l'Ananas, che i componenti della famiglia non avevano mai visto (causa miseria post-Seconda Guerra Mondiale o semplice lontananza dai luoghi ove si coltiva di solito tale frutto). Quando avranno modo di scoprire "come si serve un Ananas", la piccolina ne assaporerà dapprima il profumo e in seguito il sapore (peraltro non gradito dai sei membri della famiglia): le sequenze ambientate nel 1966 si propongono come esperienze sensoriali. Takahata non imbastisce un complesso intreccio narrativo, ma punta sulle emozioni, sul cogliere il determinato sentimento. Ognuna vanta uno e un solo messaggio, un insegnamento, una morale. Ciò pare essere pensato per un pubblico puerile (quello del manga dopotutto), creando quindi disparità con gli eventi del 1982: innocenza contro corruzione. Nel mondo della piccola Taeko la scuola possiede una grande importanza: "non avevo grandi sogni" a dieci anni, racconta, "visto che facevo solo avanti e indietro tra casa e scuola".
I punti dell'educazione scolastica su cui insiste il film sono molteplici: dal pranzo alla mensa della scuola alle riunioni di classe, che vedono nascere i primi scontri e le prime incomprensioni. La Taeko ventisettenne ripensa a quelle "cose così insignificanti" che "tornavano vivide", del loro "cane Gon, delle attività sportive, dei brividi che provavano leggendo i fumetti di Kazuo Umezu e persino di un temperamatite elettrico": ricordi che riempivano la "mente come se stesse guardando un film" e andavano "sostituendosi alla realtà". Da qui il memorie goccia a goccia del titolo: memorie insignificanti, che cadono nell'oceano senza fragore.
Le ritorna allora alla mente la sua prima "cotta", per un bambino di nome Hirota; il ragazzo, all'apparenza timido, nascondeva, invece, un grande talento per il baseball. Sarà proprio a seguito di una partita, che i due avranno modo di parlare: "Giorni nuvolosi o giorni di sole, quali preferisci?" le chiede sinteticamente Hirota, "giorni nuvolosi" risponde la timida Taeko. A Takahata basta questo minuto dialogo per esprimere la gioia e la poesia del primo incontro con l'amore da parte dei due ragazzini.
Le bambine crescono e di colpo si fanno donne. Omohide Poro Poro si insinua anche in questo campo delicato, parlando con ironia e con leggerezza di un argomento molte volte tabù: il ciclo mestruale. I ragazzi, in particolare, totalmente all'oscuro del perchè vendano dei pannolini nell'infermeria scolastica, inizieranno a sbirciare da sotto le gonne delle ragazze, ma non solo: intimoriti da un possibile "contagio da ciclo", rifugeranno addirittura la vicinanza del gentil sesso.
Ma c'è dell'altro: il desiderare a tutti i costi di possedere nuovi capi d'abbigliamento, come una borsetta ad esempio. Taeko rifiuta quella "di seconda mano" della sorella, chiedendone con insistenza una nuova. Senza scomodare Pasolini, Takahata ci offre una attualissima critica sul "consumismo", una delle molte piaghe del mondo moderno; negli anni sessanta, in Italia come in Giappone era un argomento molto dibattuto. Il regista, però, ci mostra come all'interno della famiglia Okajima i valori antichi, impersonati dall'autoritario padre e dalla sapiente nonna, non hanno ceduto il passo alle futili divinità consumistiche: quando Taeko rifiuta di uscire con la famiglia, perchè non dotata di una borsetta nuova di zecca, e quando, per lamentarsi di questa "negazione", esce dalla soglia di casa "a piedi scalzi", il patriarca le assesta un rumoroso schiaffo. La bimba scoppia in lacrime, gettando nel rammarico l'intera famiglia. Momenti che lasciano indubbiamente il segno, che impostano la crescita educativa...
Ma ci sono anche piccoli inconvenienti, di natura matematica, come il dividere una frazione per un'altra frazione; oppure il comparire all'interno della recita scolastica, recependo buoni commenti, nonché una proposta da una compagnia teatrale, trovandosi, però, costretta a rifiutarla per imposizione paterna, il quale ritiene, freddo e inamovibile, "il mondo dello spettacolo" come una cosa non buona.
Incidenti di percorso, minuzie, piccoli momenti di vita familiare e scolastica: "un bruco deve diventare una crisalide, prima di trasformarsi in una farfalla". Le due Taeko, in quei precisi momenti della loro vita, entrambi momenti di svolta, di crescita e di cambiamento, temono, più di ogni altra cosa, di "diventare una crisalide".
E' questa comunanza, questa difficoltà di affrontare una fase di "passaggio", lo scambio del binario, ad unire l'infanzia e la maturità della protagonista: "forse la me stessa di quinta elementare" pensa a un certo punto la ventisettenne "mi sta seguendo per spingermi a guardare indietro e capire chi sono". Dopo tale affermazione, non è doveroso aggiungere altro...

Consegna: penna, matita e blocco da disegno...

Da diverse latitudini è giunta una domanda rivolta direttamente a Isao Takahata, sceneggiatore e regista di Omohide Poro Poro. Per quale motivo una pellicola di questa tipologia, che non presenta né grandiosi effetti speciali e neppure chissà quale opera di ricostruzione scenografica, è stata concepita come un prodotto d'animazione e non come un più semplice (e più economico, vero Suzuki-san) "live action"? Curiosamente la ragione di questa scelta non risiede nel retaggio professionale di Takahata o dello Studio Ghibli, quanto piuttosto vi era la difficoltà per un'attrice di simulare i complessi movimenti facciali, a volte impercettibili, di Taeko. Peccato solo che il grande Totò di nome facesse Antonio...
La (saggia) scelta di appoggiarsi a carta e matita ha permesso allo spettatore anche di ammirare gli splendidi fondali realizzati per l'occasione da Kazuo Oga. Reclutato nel 1988 dallo Studio Ghibli, l'artista ha dato un contributo fondamentale per le meravigliose campagne de "Il mio vicino Totoro", cosa che gli ha permesso di lavorare prontamente agli scenari agresti di "Omohide Poro Poro". Se questi ultimi si propongono con tinte ben definite e scarsamente sfumate, il panorama della Taeko bambina si ammanta di colori chiari, bianchi o crema, che restituiscono una dimensione ovattata, remota e lontana. E' la dimensione dell'innocenza, dell'incertezza...
E', però, sul fronte musicale che il film osa maggiormente. Accostando melodie folk ungheresi a canti popolari italici, sinfonie classiche a canzoni pop inedite, Takahata ricostruisce un puzzle fonico solo all'apparenza confuso. L'idea non è lontana da un sincretismo tarantiniano: la melodia giusta per il momento giusto. Manca, e questa è una pecca, un tema centrale che accomuni l'intera pellicola, come avrebbe fatto Joe Hisaishi, storico collaboratore di Miyazaki e dello Studio Ghibli. La direzione musicale, infatti, è stata affidata a Masaru Hoshi, unica collaborazione con lo studio, il quale assolve il proprio compito con spontaneità, ma non con trasporto.

Omohide Poro Poro Nel gusto di raccontare Omohide Poro Poro c'è il fervore intellettuale di Isao Takahata, il suo interesse ludico per l'intreccio e per il montaggio. Vi è inoltre una certa dose di maliziosa curiosità nel raccontare gli ultimi cinquant'anni del Giappone, che poi corrispondono all'incirca all'infanzia, all'adolescenza, alla maturità e all'età adulta del regista. Non è un film autobiografico: non racconta il suo Giappone, ma il Giappone come lui lo ha visto. Ovverosia, con un forte interesse critico. La società dei consumi, la trasformazione economica, la smania occidentalistica: tutti “demoni” che Takahata vuole allontanare con pacatezza, con quella moderazione che lo contraddistingue. E in mezzo, travolta dagli eventi, vi è un legame, un filo di lana, che lega direttamente una bambina, Taeko, e una ragazza, lei stessa diciassette anni più tardi. Le due si somigliano molto e l'una non può proseguire il proprio cammino senza l'altra: per capire sé stessa, deve capire l'altra. Questo ci insegna la poetica takahatiana: fare i conti sempre e comunque con il passato. Con il nostro passato...